martedì 24 maggio 2011

Antropologia Medica, Antropologia Umana

C'è una serietà nel modo di porsi accanto al malato e verso la sua malattia, che viene dall'autorevolezza di chi sa quello che sta facendo per avere indagato i modelli adoperati e le procedure, ed ha la lucidità, il giusto distacco e la mano di metterle in atto, nonchè la sensibilità di giudicarne lo svolgimento imparzialmente. Trovando inoltre la prudenza di posizionare il tutto nell'interfaccia sociale e legale (e questo non in prima istanza, ma come ultima istanza).
Non sempre il malato capisce e ti capisce. Inevitabile e naturale che sia così. Questo è un versante che vuole un aggiustamento continuo. Il malato non deve capire te - ti deve accettare come tu accetti lui-, la cosa fondamentale è che capisca il processo in atto di guarigione, quando questo inizia a verificarsi.

Come disse qualcuno, la comprensione della Medicina dura più di una vita e non è mai conseguita. Talvolta si percepisce una possibilità, tuttavia.
Paul Feyerabend sosteneva che non si tratta di un tipo di studio che si fa come massimo piacere (lui avrebbe sicuramente preferito leggere libri gialli). Anch'io, direi, non sceglierei quelli di Medicina, nè tantomeno le finzioni antropologiche della realtà. Ma se non studiassi queste cose, il lavoro di medico sarebbe insopportabile.
La Medicina è giovane, quasi vergine (come nel mito greco di Asclepio) e se non imparano a studiarla i medici, ciò vorrebbe dire lasciarla del tutto ai ricercatori ufficiali e agli sciacalli.

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